lunedì 11 novembre 2013

Il suono dei senza futuro



La musica elettronica è stata sempre attratta dall'idea di "futuribile"  e questo ha permeato le scene che si sono succedute come in un  terreno di avanzamento  progressivo dove le "macchine “  per produrre musica  si evolvevano con il progredire tecnologico.
Negli anni '70, 'futuristico' significava sintetizzatori. Negli anni '80, significava sequencer e cut & past. Negli anni '90, significava i suoni digitali astratti prodotti da software sempre più sofisticati. In ognuno di questi casi, c'era la sensazione  che saremo entrati in un suono completamente diverso da tutto ciò che avevamo in precedenza  sperimentato. Oggi se  'futuristico' ha ancora un significato, è diventato sinonimo di uno stile formattato, un po'  come  dire 'gotico' nel  font  di scrittura . 'Futuristico' significa semplicemente qualcosa di elettronico.
L’elettronica che fino agli anni 90 si poteva definire per quanto detto qui sopra detto futuristica,  oggi sembra voler rappresentare il  fallimento del futuro. Questo sentimento di lutto per il futuro perduto con i dischi di Burial è diventato esplicito.  Dentro il suono “burialiano” si ha una sensazione di abbandono e spettralità, il futuro perduto infesta il presente morto, e questa percezione ha influenzato molto del suono attuale. L'etichetta hyperdub, la stessa che ha prodotto i dischi di Burial, è guidata da Kode 9 che  sua volta ha intitolato il suo disco d'esordio programmaticamente  “Memories of the future”,  per non parlare dell' approccio ancor più diretto di un'altro artista tra i più interessanti in circolazione : Zomby che domanda in un suo brano "Dove eravate nel 92?".
Non si tratta solo di nostalgia per il passato - gli anni '90 sono stati probabilmente la fine di un processo che ha avuto inizio con il rapido sviluppo del settore della registrazione dopo la seconda guerra mondiale- ma soprattutto di un sentore.  Marshall McLuhan definisce, nel suo libro “Gli strumenti del comunicare”, gli artisti come radar che hanno la capacità di percepire a distanza, cioè di anticipare mutamenti che si stanno preparando nell'immaginario collettivo.
Ultimamente l'emozione che suscitano molti dei suoni che amo derivano dalla percezione di un lato oscuro, di un lato apocalittico, che si può leggere come decadente cinismo o come sperimentazione di stati mentali disponibili a vivere senza l'orizzonte del futuro. Io propendo per la seconda opzione.
Le generazione del precariato è la prima che vede il futuro come una minaccia, e forse quello che a noi pare un appiattimento è invece il lento formarsi di un'altra percezione del tempo, una percezione combinatoria e non lineare. Forse il suono sta diventando capace di concepire contemporaneamente diversi piani dell'esperienza, passata, presente e futura e di convivere con apparati tecnologici ipercomplessi e iperveloci, insomma di avere una percezione non storica della temporalità.
Forse la mancanza di futuro ha attivato pratiche sperimentali per cercare di sovvertire il ritmo forsennato della socializzazione digitale, sempre propensa all'infinita crescita e velocizzazione delle informazioni, anche musicali.

Nell'allungamento e appesantimento dei bassi, nei ritmi interrotti, nei cripetii dei residui  elettronici, nelle interferenze digitali, nelle voci frammentate  che sembrano venire dall'orlo dell'abisso c è tutta la sofferenza e lo spaesamento di una generazione, ma c'è anche e soprattutto il desiderio di sottrazione ed autonomia dall'ipersfruttamento della precarietà.



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