“E' un festival rock!” questa affermazione di un mio giovane amico quando gli ho mostrato il programma del Sherwood festival 2015 mi ha fatto pensare:
Ma Sherwood è un festival rock? Parlare di Rock ha ancora senso? Il rock è vivo o è morto?
Sicuramente non è più quello di una volta, ma siccome considero la nostalgia una passione triste vale la pena di indagare cosa è cambiato.
Il rock era basato su alcuni parametri ampiamente condivisi: immediatezza e potenza comunicativa, immagine, ribellismo e centralità del front-man cantante. Quando queste qualità coincidevano nasceva l'icona rock capace di impersonificare in sé le inquietudini, le ansie e i desideri di intere generazioni.
L’ultima scena musicale (il Grunge) e l’ultimo martire rock ( Kurt Cobain) sono nati nella città (Seattle) e nel tempo che ha dato il via alla rivoluzione digitale. Una coincidenza piena di significati. Mentre i grandi giornali rock riempivano le copertine di quest’ultima icona , la musica e la sua fruizione si trasformava radicalmente grazie ad un uso moltitudinario delle nuove tecnologie. Il musicista diventava spesso “senza volto” e “senza scena” e ad eccezione forse del dubstep londinese anche senza un vera connotazione geografica. E proprio in quel periodo si cominciò a parlare di “Post Rock”.
In poche parole è la post-modernità che si fa musica e così anche il rock essendo incapace di narrare ancora il sentire delle nuove generazioni native digitali, cambia pelle.
La musica cambia in tutti i campi: composizione, realizzazione, produzione, fruizione, circolazione. Le etichette discografiche e la promozione diventano marginali, gli studi non servono più: basta la propria cameretta e la rete.
In un mondo in cui sei rincorso da miriadi di richiami, apparati di cattura di un potere mediatico che pervade la vita è nata in molti la convinzione che “è meglio perdersi che essere trovati”. Per questa generazione precaria con le sue vite insoddisfatte l'idea beatnik del “viaggiare senza arrivare” è diventata l'idea del “perdersi da nessuna parte”.
Il post rock diventa ricerca di un’altrove: la consapevolezza dell’impossibilità di lasciare il segno in in mondo inflazionato dai segni, e di contro la ricerca della beatitudine che permetta di svettare sopra il presente almeno per la durata di una canzone. Anzi per la durata di un brano visto che il formato canzone è definitivamente superato. Il rock per come lo avevamo tradizionalmente inteso non c’è più!
Da anni insomma c’è un fantasma che si aggira per l’oceano di suono e si chiama “rock” che si materializza oramai solo nei megalive estivi di vecchie e stanche icone che non si lasciano svanire oppure nei loro cloni e nelle loro cover band.
Ma allora ha ancora senso parlare di questo genere musicale che ha segnato il secolo scorso? Forse sì! Magari per fare un volo interstellare, lì dove Dio si trasforma in un astronauta, guardare il cielo sopra la foresta di Sherwood e spiccare il volo oltre quel che resta del rock.
Ma Sherwood è un festival rock? Parlare di Rock ha ancora senso? Il rock è vivo o è morto?
Sicuramente non è più quello di una volta, ma siccome considero la nostalgia una passione triste vale la pena di indagare cosa è cambiato.
Il rock era basato su alcuni parametri ampiamente condivisi: immediatezza e potenza comunicativa, immagine, ribellismo e centralità del front-man cantante. Quando queste qualità coincidevano nasceva l'icona rock capace di impersonificare in sé le inquietudini, le ansie e i desideri di intere generazioni.
L’ultima scena musicale (il Grunge) e l’ultimo martire rock ( Kurt Cobain) sono nati nella città (Seattle) e nel tempo che ha dato il via alla rivoluzione digitale. Una coincidenza piena di significati. Mentre i grandi giornali rock riempivano le copertine di quest’ultima icona , la musica e la sua fruizione si trasformava radicalmente grazie ad un uso moltitudinario delle nuove tecnologie. Il musicista diventava spesso “senza volto” e “senza scena” e ad eccezione forse del dubstep londinese anche senza un vera connotazione geografica. E proprio in quel periodo si cominciò a parlare di “Post Rock”.
In poche parole è la post-modernità che si fa musica e così anche il rock essendo incapace di narrare ancora il sentire delle nuove generazioni native digitali, cambia pelle.
La musica cambia in tutti i campi: composizione, realizzazione, produzione, fruizione, circolazione. Le etichette discografiche e la promozione diventano marginali, gli studi non servono più: basta la propria cameretta e la rete.
In un mondo in cui sei rincorso da miriadi di richiami, apparati di cattura di un potere mediatico che pervade la vita è nata in molti la convinzione che “è meglio perdersi che essere trovati”. Per questa generazione precaria con le sue vite insoddisfatte l'idea beatnik del “viaggiare senza arrivare” è diventata l'idea del “perdersi da nessuna parte”.
Il post rock diventa ricerca di un’altrove: la consapevolezza dell’impossibilità di lasciare il segno in in mondo inflazionato dai segni, e di contro la ricerca della beatitudine che permetta di svettare sopra il presente almeno per la durata di una canzone. Anzi per la durata di un brano visto che il formato canzone è definitivamente superato. Il rock per come lo avevamo tradizionalmente inteso non c’è più!
Da anni insomma c’è un fantasma che si aggira per l’oceano di suono e si chiama “rock” che si materializza oramai solo nei megalive estivi di vecchie e stanche icone che non si lasciano svanire oppure nei loro cloni e nelle loro cover band.
Ma allora ha ancora senso parlare di questo genere musicale che ha segnato il secolo scorso? Forse sì! Magari per fare un volo interstellare, lì dove Dio si trasforma in un astronauta, guardare il cielo sopra la foresta di Sherwood e spiccare il volo oltre quel che resta del rock.
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